Legge di conversione del Decreto Liquidità: gestione dei livelli occupazionali e responsabilità del datore di lavoro in caso di contagio da COVID-19

Il Decreto Liquidità è diventato Legge. È stata infatti pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 143 del 6 Giugno 2020 la Legge 5 Giugno 2020, n. 40 (disponibile qui) recante la «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 8 aprile 2020, n. 23, recante misure urgenti in materia di accesso al credito e di adempimenti fiscali per le imprese, di poteri speciali nei settori strategici, nonché interventi in materia di salute e lavoro, di proroga di termini amministrativi e processuali» (di seguito, la «Legge di Conversione»).

La Legge di Conversione conferma le molteplici misure economiche e sociali adottate dal Decreto Liquidità in materia di accesso al credito e di adempimenti fiscali per le imprese, ma interviene con alcune modifiche fondamentali anche in materia di responsabilità del datore di lavoro in caso di contagio da COVID-19 sul lavoro.

Riportiamo di seguito le principali disposizioni contenute del Decreto Liquidità (come confermate nella Legge di Conversione) sotto il profilo giuslavoristico.

1. Prestiti garantiti SACE e la gestione dei livelli occupazionali

Al fine di assicurare la necessaria liquidità alle imprese colpite dall’emergenza COVID-19, il Decreto Liquidità prevede che SACE S.p.A. possa concedere, fino al 31 Dicembre 2020, garanzie alle imprese con sede in Italia per prestiti bancari e finanziamenti nel rispetto della normativa europea sugli aiuti di Stato.

Le imprese che vogliano accedere alle predette garanzie devono rispettare una serie di vincoli previsti dall’art. 1, comma 2 del Decreto Liquidità. Una delle condizioni ivi elencate per la concessione della garanzia SACE S.p.A. -e confermata dalla Legge di Conversione- risiede nel fatto che l’impresa deve assumere «l’impegno a gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali». 

Molto si è discusso sulla portata di tale disposizione. Nel profluvio di norme emergenziali introdotte dal Governo durante la crisi epidemiologica, in un primo momento questa norma è passata quasi inosservata. Tuttavia, la norma citata merita una particolare attenzione in quanto comprime evidentemente la libertà di iniziativa imprenditoriale sancita e garantita dall’art. 41 della Costituzione.

Anzitutto, infatti, va rilevata l’estrema genericità della disposizione, che non fornisce indicazioni in merito ai requisiti di rappresentatività delle organizzazioni sindacali con le quali concludere gli accordi, né precisa quale debba essere l’oggetto di tali accordi sindacali.

In particolare, non è chiaro quale organizzazione sindacale dovrà essere coinvolta dall’azienda per «gestire i livelli occupazionali». Dato che la norma non individua alcun criterio di selezione del sindacato limitandosi a richiedere la stipulazione di un accordo sindacale, si può ritenere che potrà essere coinvolta qualsiasi organizzazione sindacale -purché ovviamente non di comodo- e di qualsiasi livello. Pertanto, non dovranno necessariamente essere coinvolte le organizzazioni sindacali territoriali o nazionali, ma si ritiene sufficiente la stipulazione di un accordo con le rappresentanze sindacali aziendali (RSA o RSU).

Per quanto concerne il contenuto dell’accordo sindacale, l’art. 1, comma 2, lett. l) del Decreto Liquidità menziona in modo generico la «gestione dei livelli occupazionali», senza fare riferimento ad un istituto specifico. In assenza di ulteriori specificazioni, dovranno dunque rientrare nella gestione dei livelli occupazionali tutti i casi di diminuzione (ed in teoria anche di aumento) del personale. In questo senso, oggetto dell’accordo sindacale saranno senza dubbio le procedure di licenziamento collettivo, che dovranno concludersi in ogni caso con un accordo (e ciò in deroga ai princìpi ormai trentennali sanciti dalla Legge n. 223/1991) nonché in linea teorica anche i licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo, in quanto inerenti al «livello occupazionale» della Società, mentre si sottraggono a questo vincolo i licenziamenti disciplinari.

Inoltre, le imprese che vorranno beneficiare della garanzia della SACE S.p.A. saranno tenute a coinvolgere i sindacati e raggiungere un accordo obbligatorio anche nell’ambito di un trasferimento di azienda o di ramo d’azienda. In queste ipotesi, anche qualora la procedura di consultazione effettuata ai sensi dell’art. 47, comma 2, della Legge n. 428/1990 non dia esito ad un accordo nel periodo di 25 giorni ed entro 10 giorni dall’inizio dell’esame congiunto, sarà comunque necessario un accordo sindacale per beneficiare della garanzia (anche in questo caso, dunque, il principio della non vincolatività dell’accordo sindacale sembra essere vanificato).

Infine, si pone un problema interpretativo riguardo al concetto di «impegno» che l’impresa beneficiaria dovrà assumersi. Infatti, l’impegno alla stipulazione di un accordo sindacale per gestire i livelli occupazionali non sembra configurabile quale condizione di accesso al beneficio, ma sembra piuttosto essere necessario al fine di consentire la conservazione della garanzia riconosciuta. Pertanto, si ritiene che l’impresa non debba aver già sottoscritto l’accordo sindacale al momento della richiesta della garanzia della SACE S.p.A., ma dovrà impegnarsi per il futuro a trovare un accordo condiviso con le parti sociali., a pena di una possibile decadenza dal beneficio.

Indubbiamente, questa generica norma pone, come si è visto, problemi interpretativi e gestionali non di poco conto, tali da ingessare l’operatività delle imprese e introdurre un evidente squilibrio sul piano negoziale, avendo le organizzazioni sindacali la facoltà di imporre alle aziende il raggiungimento di un accordo (oseremmo dire, «ad ogni costo») per la conclusione di operazioni straordinarie all’interno dell’azienda.

2. Obblighi dei datori di lavoro per la tutela contro il rischio di contagio da COVID-19

La Legge di Conversione del Decreto Liquidità è intervenuta anche in ambito di salute e sicurezza sul luogo di lavoro. Infatti, come noto uno dei trend topic delle ultime settimane è stato quello della possibile responsabilità del datore di lavoro in caso di contagio da COVID-19 sul luogo di lavoro. In particolare, l’art. 42, comma 2, del c.d. «Decreto Cura Italia» (Decreto Legge del 17 Marzo 2020, n. 18, convertito in Legge del 24 Aprile 2020, n. 27), seguito dalla Circolare INAIL n. 13/2020, aveva previsto la tutela infortunistica da parte dell’INAIL nei casi accertati di infezione da COVID-19 in occasione di lavoro, equiparando il contagio all’infortunio sul lavoro.

La prima interpretazione della norma in questione fornita dall’Istituto assicurativo aveva suscitato un ampio dibattito sulle possibili responsabilità del datore di lavoro per rischio di contagio dei dipendenti da COVID-19. Al fine di chiarire le perplessità scaturite, l’INAIL, con comunicazione del 15 Maggio 2020 e con successiva Circolare n. 22 del 20 Maggio 2020, aveva fornito ulteriori chiarimenti in materia precisando che la circostanza che l’astensione dal lavoro a causa del contagio da COVID-19 fosse riconosciuta quale infortunio assicurato dall’INAIL non aveva conseguenze sull’accertamento degli eventuali profili di responsabilità civile e penale del datore di lavoro, da determinarsi in base ad un esame condotto nell’alveo dei rigorosi canoni precessual-civilistici e penali.

In questo contesto è intervenuta la Legge di Conversione introducendo l’art. 29-bis sugli obblighi del datore di lavoro per la tutela contro il rischio di contagio da COVID-19. In particolare, la nuova disposizione in un certo senso limita la responsabilità dei datori di lavoro pubblici e privati, prevedendo che l’obbligo di tutelare le condizioni di lavoro di cui all’art. 2087 del Codice Civile si considera adempiuto mediante l’adozione e il mantenimento delle prescrizioni e delle misure anti-contagio previste:

• nel «Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro», sottoscritto il 24 Aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni;

• negli altri protocolli e linee guida idonei a prevenire o ridurre il rischio di contagio nei settori economici, produttivi e sociali adottati a livello regionale o nazionale, di cui all’art 1, comma 14, del Decreto-Legge 16 Maggio 2020, n. 33.

Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni -precisa la nuova disposizione- rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

Pertanto, con l’introduzione dell’art. 29-bis assume valore normativo quanto già comunicato dall’INAIL con la Circolare n. 22/2020, secondo la quale non è rinvenibile una correlazione diretta tra il riconoscimento dell’origine professionale del contagio ed i profili di responsabilità civile e penale del datore di lavoro, che sarà ipotizzabile solo in caso di violazione dei protocolli e delle linee guida governativi e regionali adottati al fine di contenere la diffusione e il contagio da COVID-19.