Decreto Legge 25 marzo 2020 n. 19 - Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19 - risvolti penali

1. Il nuovo assetto di competenze in materia emergenziale

Il Governo italiano ha delineato – con il Decreto Legge n. 19 del 25 marzo 2020 (d’ora in avanti il “Decreto 19/2020”) –un nuovo assetto di regole e competenze in materia emergenziale.

Innanzitutto, all’articolo 1, comma 1, il Decreto 19/2020 prevede la possibilità di adottare “su specifiche parti del territorio nazionale ovvero, occorrendo, sulla totalità di esso una o più misure di contenimento per periodi predeterminati di durata non superiore a trenta giorni reiterabili e modificabili più volte fino al 31 luglio 2020”, andando così a sanare la paventata ‘carenza di legalità’ delle misure adottate sulla base del precedente decreto legge al di fuori delle c.d. “zone rosse”.

Il comma 2 dello stesso articolo indica peraltro le misure di contenimento adottabili per fronteggiare l’emergenza sanitaria, indicandole tassativamente, senza prevedere alcuna “clausola in bianco” (come quella contenuta nel precedente decreto legge).

A ciò si aggiunga che il Decreto 19/2020 impone, in relazione all’adozione di tali misure, il rispetto dei principi di adeguatezza e proporzionalità al rischio effettivamente presente sul territorio.

L’articolo 2 del Decreto 19/2020 prevede inoltre che le misure di contenimento siano disposte con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, “sentiti i ministri competenti per materia, i Presidenti delle regioni interessate […] ovvero il Presidente della Conferenza delle regioni e delle province autonome nel caso in cui riguardino l’intero territorio nazionale” e che il Ministro della Salute possa adottare misure limitative, ma solo “nelle more dell’adozione dei d.p.c.m” e “nei casi di estrema necessità e urgenza”.

L’articolo 3, comma 1, del Decreto 19/2020 (“Misure urgenti di carattere regionale o infraregionale”) attribuisce alle Regioni il potere, “in relazione a specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario verificatesi nel loro territorio o in una parte di esso” e “esclusivamente nell’ambito delle attività di loro competenza e senza incisione delle attività produttive e di quelle di  rilevanza strategica per l'economia nazionale”, di introdurre misure ulteriormente restrittive tra quelle di cui all’articolo 1 dello stesso Decreto.

I Sindaci hanno invece il divieto di adottare, a pena di inefficacia, “ordinanze contingibili e urgenti dirette a fronteggiare l'emergenza in contrasto con le misure statali”.

Il Decreto 19/2020 ha infine precisato che “continuano ad applicarsi nei termini originariamente previsti le misure già adottate con i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri adottati in data 8 marzo 2020, 9 marzo 2020, 11 marzo 2020 e 22 marzo 2020”.

Per verificare le principali misure di contenimento previste nei DPCM sopra indicati clicca qui.

2. Il mancato rispetto delle misure di contenimento: il nuovo impianto sanzionatorio

Per quanto concerne le sanzioni applicabili ai cittadini per l’inosservanza delle misure di contenimento, il Decreto 19/2020 abroga l’articolo 3, comma 4, del precedente decreto legge n. 6/2020, che faceva riferimento alla fattispecie di reato di cui all’art. 650 del codice penale, per lasciar spazio ad un illecito amministrativo punitivo.

L’articolo 4, comma 1, del Decreto 19/2020 prevede infatti che “salvo che il fatto costituisca reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui all’articolo 1, comma 2 […] è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 a euro 3000 e non si applicano le sanzioni contravvenzionali previste dall’articolo 650 del codice penale”.

Lo stesso articolo prevede inoltre un aumento delle sanzioni (fino ad un terzo), qualora ricorra l’ulteriore circostanza aggravante della violazione delle misure attraverso l’utilizzo di un veicolo.

A questo riguardo va peraltro evidenziato che, prima dell’emanazione del Decreto 19/2020, la Procura della Repubblica di Parma aveva emanato delle “direttive operative” che prevedevano l’ammissibilità del sequestro preventivo “impeditivo” del veicolo, considerato “strumento essenziale” per la commissione del reato.

Per quanto riguarda poi gli esercizi e le attività commerciali, la violazione di alcune specifiche misure tra quelle previste dal Decreto 19/2020, comporta la sanzione amministrativa accessoria della chiusura dell’esercizio o dell’attività per un periodo di tempo che varia da 5 a 30 giorni.

Il Decreto 19/2020 precisa peraltro che in caso di “reiterata violazione della medesima disposizione la sanzione amministrativa è raddoppiata e quella accessoria è applicata nella sua misura massima”.

Viene inoltre riconosciuta all’Autorità procedente la facoltà di “disporre la chiusura provvisoria dell’attività o dell’esercizio per una durata non superiore a 5 giorni”, periodo che verrà poi scomputato dalla corrispondente sanzione accessoria definitiva.

Da ultimo, è opportuno precisare che l’illecito amministrativo previsto dal nuovo Decreto, essendo sottoposto alla disciplina generale prevista dalla Legge n. 689/1981, risulterà punibile sia a titolo di dolo che di colpa.

Anche l’accertamento delle violazioni avverrà ai sensi della Legge n. 689/1981: le stesse verranno pertanto irrogate alternativamente dal Prefetto – in caso di violazione delle misure di contenimento previste dal Decreto 19/2020 – o dalla Regione – in caso di violazioni delle misure urgenti di carattere regionale ed infra-ragionale –.

3. I reati che potrebbero venire in rilievo

Lo stesso Decreto 19/2020 richiama alcune fattispecie di reato che potrebbero essere contestate.

Ad esempio, il Decreto prevede espressamente che la violazione della misura di cui all'articolo 1, comma 2, lettera e – e cioè l’inosservanza della quarantena da parte di chi è risultato positivo al virus – debba essere “punita ai sensi dell'articolo 260 del Regio Decreto 27 luglio 1934, n. 1265 [Testo unico delle leggi sanitarie].

Tale norma prevede una sanzione penale nei confronti di “chiunque non osserva un ordine legalmente dato per impedire l'invasione o la diffusione di una malattia infettiva dell'uomo”, e dispone un aumento della pena “se il fatto è commesso da persona che esercita una professione o un'arte sanitaria”.

Tale fattispecie è considerata di regola come un reato di “pericolo astratto”, per cui, secondo l’orientamento prevalente – sulla cui compatibilità costituzionale non mancano peraltro autorevoli voci critiche –, il Giudice potrebbe limitarsi ad accertare l’inosservanza della quarantena, indipendentemente dal fatto che tale violazione abbia “concretamente” esposto a pericolo altre persone.

Peraltro, la pena congiunta dell’arresto e dell’ammenda esclude la possibilità di ricorrere all’istituto giuridico dell’oblazione e la configurazione del reato come “contravvenzione” lo rende punibile sia a titolo di dolo che di colpa.

Nei casi più gravi, potrà essere contestata la fattispecie di reato di cui all’articolo 452 del codice penale.

In particolare, una delle condotte punite dall’art. 452 del codice penale consiste nell’aver cagionato – seppur colposamente – “un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni”. Va peraltro evidenziato che, in dottrina e in giurisprudenza, è circostanza ancora controversa se tale reato debba essere considerato come una fattispecie di “danno” o di “pericolo”: in quest’ultima ipotesi, il Giudice potrebbe limitarsi ad accertare se, in concreto, la violazione del soggetto alle misure di contenimento abbiano comportato anche soltanto il “pericolo” di diffusione dell’epidemia.

Da notizie di stampa sembra peraltro che alcune Procure della Repubblica abbiano già avviato alcune indagini proprio in relazione a tale reato.

Infine, non è escluso che possa essere contestato anche il reato di “lesioni personali colpose”, ai sensi dell’art. 590 del codice penale, in ipotesi in cui il trasgressore, adottando comportamenti in spregio delle basilari regole dettate dal Governo, finisca per contagiare altre persone. In proposito, non è superfluo tuttavia precisare che per ritenere configurabile tale delitto sarebbe necessario l’accertamento del nesso causale fra la condotta colposa e la malattia cagionata a terzi, e cioè la prova che la violazione delle regole cautelari contenute nei DPCM abbia effettivamente cagionato l’infezione da coronavirus.

La configurabilità di tale reato ha peraltro riflessi anche sulla responsabilità dei datori di lavoro: qualora, infatti, i datori di lavoro non adottassero precauzioni per tutelare in propri dipendenti dal rischio di contagio, in violazione delle stesse prescrizioni dei DPCM – ad esempio del “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro” siglato tra il Governo e le parti sociali in data 14 marzo 2020 – e,  più in generale, del D.lgs. 81 del 2008 in materia di salute e sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, vi è il rischio dell’apertura di procedimenti penali nei loro confronti per il delitto di lesioni colpose, naturalmente sempre nell’eventualità in cui la Pubblica Accusa possa dimostrare che la patologia contratta dal lavoratore derivi dalla condotta colposa del datore di lavoro, e si possano al contempo escludere decorsi causali alternativi.

Per i datori di lavoro delle imprese che svolgono un servizio pubblico (e che sono tenuti quindi a garantirne la continuità) si configura anche il rischio di commissione del delitto di “interruzione di un servizio pubblico o di pubblica necessità”, ai sensi dell’art. 331 del codice penale, che punisce, con la reclusione da sei mesi a un anno e con la multa non inferiore a euro 516 – e addirittura con la reclusione da tre a sette anni e la multa non inferiore a euro 3.098 i “capi, promotori ed organizzatori” –, “chiunque, esercitando imprese di servizi pubblici o di pubblica necessità, interrompe il servizio, ovvero sospende il lavoro nei suoi stabilimenti, uffici o aziende, in modo da turbare la regolarità del servizio”.

Peraltro, nell’ambito della stessa impresa potrebbero esserci soltanto alcuni servizi considerati “di pubblica necessità” o comunque un “servizio pubblico” (indicati dal Governo nell’allegato 1 del DPCM del 22 marzo 2020), e dunque l’imprenditore dovrà necessariamente valutare:

• quali attività/servizi dovrà necessariamente garantire al pubblico e quali invece potranno o dovranno essere sospesi;
• quali attività possano o debbano essere svolte con modalità che limitino il rischio di diffusione del virus e quali misure di precauzione adottare.

Infine, nei casi in cui si usi violenza o minaccia, ad esempio, per sottrarsi all’attività di controllo sul rispetto delle prescrizioni affidata alle Forze dell’Ordine, potrebbe trovare applicazione il delitto di “resistenza a un pubblico ufficiale” di cui all’art. 337 del codice penale, che punisce “chiunque usa violenza o minaccia per opporsi a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico, mentre compie un atto di ufficio o di servizio”.

4. Le sanzioni applicabili alle condotte poste in essere prima dell’entrata in vigore del Decreto 19/2020

L’abrogazione dell’articolo 3 del precedente decreto Legge n. 6/2020 e la conseguente non applicabilità dell’art. 650 c.p. ha posto evidentemente la questione di come rapportarsi in relazione alle condotte di violazione delle misure di contenimento poste in essere prime dell’entrata in vigore del Decreto 19/2020.

A questo riguardo, lo stesso Decreto 19/2020 ha previsto che “le disposizioni del presente articolo che sostituiscono sanzioni penali con sanzioni amministrative si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto, ma in tali casi le sanzioni amministrative sono applicate nella misura minima ridotta alla metà”, e dunque nella misura di 200 euro.

5. Le conseguenze penali in caso di “falsa” autodichiarazione per gli spostamenti

Come noto, tra le misure di contenimento previste vi è anche quella che vieta ogni spostamento delle persone fisiche sino al 3 maggio 2020 (da ultimo, DPCM 10 aprile 2020), salvo che per gli “spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero spostamenti per motivi di salute”.

Nella “Direttiva ai Prefetti per l’attuazione dei controlli” del Ministro dell’Interno si precisa che “l'onere di dimostrare la sussistenza delle situazioni che consentono la possibilità di spostamento incombe sull'interessato. […] Si ritiene che tale onere potrà essere assolto producendo un’autodichiarazione ai sensi degli artt. 46 e 47 del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, che potrà essere resa anche seduta stante attraverso la compilazione dei moduli appositamente predisposti in dotazione agli operatori delle Forze di polizia e della Forza pubblica”.

In sostanza, quindi, in caso di controlli dell’Autorità di Pubblica Sicurezza, tutti i cittadini che non ne siano già provvisti dovranno compilare sul posto una “autodichiarazione” fornita dalle Forze dell’Ordine, in cui attestano la sussistenza delle esigenze o situazioni sopra indicate.

Il Ministero dell’Interno ha pubblicato sul proprio sito internet il modello di tale autodichiarazione (aggiornato, da ultimo, lo scorso 26 marzo 2020) e ha infine precisato che “la veridicità dell’autodichiarazione potrà essere verificata anche con successivi controlli”.

Anche nel vademecum (pubblicato online sul sito internet del Governo all’indirizzo http://www.governo.it/it/faq-iorestoacasa) il Governo ha peraltro ribadito che “la veridicità delle autodichiarazioni sarà oggetto di controlli successivi e la non veridicità costituisce reato”.

Nel caso in cui si dichiari il falso nell’autocertificazione si potrà infatti essere chiamati a rispondere del reato di cui all’art. 495 c.p. (reato espressamente richiamato dal modulo di autocertificazione pubblicato sul sito del Ministero dell’Interno), che, sotto la rubrica «Falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri», punisce con la reclusione fino a sei anni “chiunque dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l'identità, lo stato o altre qualità della propria o dell'altrui persona”.

Tale reato potrà ritenersi configurato, ad esempio, nel caso in cui taluno compili l’autodichiarazione fornendo le generalità di qualcun altro.

Nel caso in cui, invece, taluno compili l’autodichiarazione attestando falsamente la sussistenza di situazioni che consentono lo spostamento (si pensi, ad esempio, all’attestazione di esigenze lavorative in realtà inesistenti), problematico è se possa essere contestato il delitto di cui all’art. 483 c.p., che punisce, con la reclusione fino a due anni, “chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale […] fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità”.

A questo riguardo, va infatti evidenziata la posizione della Procura della Repubblica di Genova che, in una comunicazione del 16 marzo scorso rivolta al Questore e ai Comandanti dei Carabinieri, della Guardia di Finanza e della Polizia Municipale, ha precisato che “le persone che, fermate per controllo da Organi di Polizia, offrano giustificazioni rivelatesi poi non veritiere circa il motivo della eventuale trasgressione, ferma la configurabilità dell’art. 650 c.p. [oggi non più applicabile dopo la depenalizzazione effettuata dal Decreto 19/2020, ndr], non sembra possano essere denunciate ex art. 483 cp per l’impossibilità di qualificare come ‘attestazione’ penalmente valutabile la dichiarazione stessa che, nel caso in esame, non può ritenersi finalizzata a provare la verità dei fatti esposti”.

Da ultimo, anche la dottrina più recente si è espressa nel senso di escludere la configurabilità del reato di cui all’art. 483 c.p., in considerazione del fatto che “la dichiarazione resa agli agenti di pubblica sicurezza in ordine alle ragioni dell’allontanamento non [può] essere qualificata in termini di autocertificazione rilevante ai sensi degli artt. 46 e 47, d.p.r. 445/2000” (sul punto si veda Matteo Grimaldi, Covid-19: la tutela penale dal contagio, Giurisprudenza Penale, 8 aprile 2020).